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            Amitâyus
            Tibet - Rame dorato e turchesi - Alta cm. 28 - XVIII Sec.
  
            Il culto del Buddha Cosmico Amitâbha (“Luce Infinita”) e della sua    variante Amitâyus (“Vita Infinita”) si sviluppò in particolare nelle    regioni dell’India nord-occidentale entro il III secolo d.C. Ognuno  dei   Buddha Cosmici trova una sua collocazione cardinale specifica.   Amitâyus  presiede la direzione occidentale (1) e il suo colore è il   rosso, come  il sole al tramonto. La sua denominazione legata alla luce   potrebbe  essersi originata attraverso i contatti con la religione   zoroastriana,  la cui divinità principale è Ahura Mazda, dio della   luce, il cui  culto era diffuso nel mondo iranico ai confini   nord-occidentali  dell’India (2). Amitâyus viene immaginato   all’interno di un paradiso  chiamato “Terra di Beatitudine” e descritto   nel relativo sutra (3), che  fu tradotto dal sanscrito in cinese già a   metà del III secolo(4). Questo  breve testo, che descrive un regno di   benessere e prosperità dal quale  è assente ogni tipo di sofferenza,   aveva lo scopo di indicare la  via per raggiungere tale condizione   attraverso la pratica del “ricordo  con- sapevole del Buddha”, una   prassi meditativa in voga all’interno  della cosiddetta scuola della   “Terra Pura”. La prerogativa principale  di questa pratica consiste nel   tentativo di entrare in comunione con il  Buddha Amitâbha, sviluppando   un atteggiamento devozionale. Infatti,  si ritiene che Amitâyus sia  in  grado di elargire lunga vita, una  caratteristica simboleggiata dal  vaso  che sorregge, contenente il  nettare dell’ambrosia che conferisce   immortalità. Le quattro foglie  pendenti dalla bocca del vaso   rappresentano quattro Buddha della  pentade, sormontati al centro dallo   stesso Amitâyus, simbolicamente  rappresentato da un gioiello sulla   sommità (5), che in questo caso assume  la forma di una triplice gemma,   corrispondente al Buddha, alla sua  dottrina e alla comunità dei suoi   seguaci.  (1) David Snellgrove,  Indo-Tibetan Buddhism. Indian   Buddhists & Their Tibetan Successors,  Shambala, Boston 1987, p. 56.   (2) Erberto Lo Bue, Tibet. Dimora degli dei,  La Rinascente, Mi- lano   1991, p. 41, fig. 12. (3)  Sukhâvatîvyûhasûtra. See Raniero  Gnoli  (ed.), La Rivelazione del  Buddha, vol. 2, “Il Grande Veicolo”,   Mondadori, Milano 2004, p.1180. (4)  David Snellgrove, Indo-Tibetan   Buddhism. Indian Buddhists & Their  Tibetan Successors, op. cit., p.   56. (5) Robert Beer, The Handbook of Tibetan Buddhist Symbols, Serindia, Chicago - London 2003, p. 201.                    ALC (Free Circulation)      
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